Arrivare a Vancouver dopo giorni trascorsi tra le montagne di Banff e Jasper è come cambiare musica all’improvviso.
Dopo chilometri di silenzio e paesaggi infiniti, la città ti accoglie con il suono dei tram, il profumo del caffè tostato e una brezza che sa di oceano e resina.
Ne avevo sentito parlare come una delle città più vivibili al mondo. E avevo voglia di scoprirlo con i miei occhi, non come turista, ma come qualcuno che si ferma, osserva e prova a sentire il battito quotidiano della gente che vive così lontano da noi — e, forse, così bene.
Cosa tratteremo
Come arrivare e muoversi in città
Siamo arrivati da Jasper, dopo una notte di sosta a Kamloops.
Restituire l’auto a noleggio e salire sullo SkyTrain’s Canada Line è stato come entrare in un film futurista: stazioni luminose, treni puliti, passeggeri silenziosi con il caffè d’asporto in mano.
Il tragitto verso il centro dura appena 25 minuti, ma il panorama cambia a vista d’occhio: le montagne lasciano spazio a grattacieli, i pini agli skyline di vetro che riflettono le nuvole.
Il biglietto costa poco meno di otto dollari — e in un attimo sei nel centro della città. A Vancouver cammini, pedali, navighi.
È una città che invita a muoversi piano: marciapiedi larghi, piste ciclabili ovunque, un sistema di trasporti semplice e preciso.
Ti capiterà di salire su una barchetta del False Creek Ferry, una di quelle che scivolano sull’acqua come giocattoli, collegando le varie zone tra un sorriso del capitano e un vento salato che spettina i capelli.
Noi abbiamo provato tutto: autobus, bici, treno, perfino il tandem. E la sensazione è stata sempre la stessa — libertà ordinata, quella che ti fa sentire parte del paesaggio senza disturbare.
Dove mangiare a Vancouver
A tavola, Vancouver è un continente in miniatura.
Ogni quartiere racconta una storia diversa, ogni ristorante una tradizione.
Al mattino facevamo colazione da Breka Bakery & Café, in Bute Street: il profumo dei muffins e del caffè appena macinato riempiva la strada. Gente di ogni età seduta ai tavolini, laptop aperti, sorrisi tranquilli.
Al Craft Beer Market, invece, l’aria sapeva di malto e legno: più di cento birre alla spina e un pollo alla birra da leccarsi le dita.
E poi Denbo Ramen, in Robson Street — un piccolo ristorante dove il brodo fuma davanti al bancone e il vapore appanna gli occhiali. Ci siamo seduti accanto a due studenti giapponesi che ridevano con la ciotola tra le mani. Era tutto semplice, autentico, perfetto.
Downtown: il cuore che non corre
Il centro di Vancouver è una sorpresa silenziosa.
Grattacieli sì, ma non ostili: vetro, acciaio e luce che si riflettono sul blu della baia e sul verde degli alberi.
Camminando lungo West Georgia Street, ti accorgi che persino nel quartiere finanziario c’è spazio per il respiro. Ogni tanto un parco improvviso, una pista ciclabile, un chiosco di tacos.
Poi arrivi a Canada Place, con i suoi tetti bianchi a forma di vela che spuntano tra i moli. Quando il sole cala e le luci si accendono, la baia sembra una fotografia in movimento. Ma il bello, qui, è sedersi su una panchina e restare: guardare la gente passare, sentire il mormorio dei traghetti, respirare salsedine e caffè.
Gastown: dove tutto è cominciato
A pochi passi dalla modernità, Gastown ti riporta indietro di un secolo.
È il quartiere più antico della città, nato intorno a un barista — “Gassy Jack” Deighton — che aprì qui il primo saloon nel 1867.
Le strade sono acciottolate, le lampade in ghisa, i mattoni rossi ancora segnati dal tempo.
C’è un profumo di birra artigianale e di legno umido. Le vetrine dei negozi di design convivono con i pub rumorosi e i bistrot pieni di studenti.
Ma l’attrazione più amata resta il Steam Clock, l’orologio a vapore che ogni quarto d’ora sbuffa e fischia la melodia del Big Ben. Ti fa sorridere, anche se lo hai già visto mille volte in foto. Forse perché lo vedi muoversi — e respirare.
Stanley Park: la città che diventa foresta
Se Vancouver avesse un’anima, sarebbe qui.
Stanley Park non è solo un parco: è un pezzo di foresta affacciata sull’oceano, dove la città si ferma a fare pace con se stessa.
Abbiamo noleggiato un tandem e percorso il Seawall, la lunga strada costiera che abbraccia il parco. A sinistra l’acqua, a destra gli alberi — abeti giganteschi, aceri rossi, larici dorati. Il vento profuma di resina e sale.
Ogni tanto un totem appare tra i rami: simboli scolpiti nel legno di cedro, racconti di popoli che vivevano qui molto prima di noi.
Dal belvedere di Prospect Point si vede il Lions Gate Bridge, elegante come una linea tracciata a matita tra cielo e mare.
E se sei fortunato, tra marzo e ottobre potresti scorgere un gruppo di orche che attraversano la baia. Noi non le abbiamo viste, ma sapere che ci sono basta per emozionarsi.
Gli abitanti del parco
A Stanley Park non sei mai davvero solo.
Mentre pedalavamo, due procioni sono spuntati da un cestino della spazzatura. Ci hanno guardato con quegli occhi cerchiati di nero, come ladri gentili, e sono tornati a rovistare.
Più avanti, scoiattoli neri saltavano tra i rami, mentre un airone blu stava immobile sull’acqua.
Qui convivono castori, foche, coyote e centinaia di uccelli migratori che usano il parco come tappa del loro viaggio.
È un mondo dentro la città — e forse il motivo per cui Vancouver sembra respirare più lentamente di altre metropoli.
Yaletown e il taglio da trentuno dollari
Un tempo capolinea della Canadian Pacific Railway, oggi Yaletown è il quartiere trendy della città.
Ristoranti curati, locali pieni di luci calde, negozi indipendenti e parrucchieri dall’aspetto vintage.
Massimo, il mio compagno di viaggio, non ha resistito e si è fatto tagliare i capelli in uno di quei barber shop minimalisti. Prezzo? 31,50 dollari. Esperienza? Inestimabile.
Di sera, Yaletown si riempie di musica, risate, odore di tacos e di pesce alla griglia. Ti basta una birra, una panchina e la vista sul mare per capire perché qui la vita scorre bene.
Granville Island e False Creek
Una mattina siamo saliti sul bus 50 per Granville Island, un piccolo mondo sospeso tra acqua e creatività.
Negli anni ’70 era un porto industriale, pieno di segherie e fabbriche. Oggi ospita gallerie, botteghe e un mercato coperto dove ogni banco è una tentazione: frutta, pesce, pane, dolci, profumi, colori.
Fuori, le barche ondeggiano lente e gli artisti di strada suonano jazz.
Da qui abbiamo preso una delle False Creek Ferries, piccole barche blu che navigano lungo la baia fino allo Science World.
Seduti sul ponte, il vento in faccia e lo skyline che si riflette sull’acqua: una delle immagini più belle del viaggio.
Una serata alla Rogers Arena
Per l’ultima sera, avevamo i biglietti per una partita di hockey su ghiaccio.
Io non sapevo cosa aspettarmi — temevo la noia del calcio — invece è stato puro divertimento.
Luci, mascotte, cori, musica a tutto volume. I Vancouver Canucks hanno perso per un punto, ma non importava. Durante l’intervallo, un addetto ci ha notati (“siete italiani?”) e ci ha spostati in posti migliori, regalandoci spillette e risate.
Sono uscita dall’arena con le guance arrossate e l’eco dei tamburi nelle orecchie.
Cosa non mi è piaciuto
Nessun viaggio è perfetto, e Vancouver non fa eccezione.
Nei dintorni dell’East End ho visto tanti senzatetto. Non mi hanno mai infastidita, ma il contrasto con la ricchezza del resto della città è forte.
Un ragazzo del posto mi ha spiegato che qui il clima è mite — per gli standard canadesi — e che molti vengono per sopravvivere all’inverno.
È un lato che non appare nelle cartoline, ma fa parte della realtà. E ricordarselo aiuta a vedere la città con occhi più sinceri.
Vancouver non mi ha travolta subito. È una città che non si svela al primo sguardo, come certe persone che impari ad amare con calma.
È fatta di verde e acciaio, di mare e biciclette, di sushi e maple syrup.
Ti resta dentro piano, come un profumo che non sai riconoscere ma continui a cercare.
Quando l’aereo è decollato, guardando giù ho visto i ponti, i parchi, le vele bianche di Canada Place. E ho pensato che Vancouver è una città che non si visita — si abita, anche solo per cinque giorni.